Un ricordo per tutti gli appassionati di montagna che non
riflettono sulle opportunità di saper rinunciare, per la loro sicurezza e per
quella di altri.
La preparazione era stata meticolosa, l’allenamento era
iniziato nella tarda primavera, sia su roccia sia su ghiaccio. Con il mio
esperto compagno di escursioni avevamo stabilito un calendario di preparazione
che, partendo dalle montagne di casa nostra (tra cui il Diavolino e Diavolo,
zona Calvi, via cresta) e proseguendo con la Hot route Vioz, Palon della Mare e
Cevedale ci assicurava sulle tecniche d’adottare in seguito.
L’obiettivo era il Monte Rosa, Rifugio Margherita, da affrontare
salendo da Gressoney la Trinitè, programmato nel periodo di ferie agostane. Il
periodo non era il migliore per i quattro mila, ma gli impegni di lavoro non ci
lasciavano scelte diverse.
Accuratamente avevamo studiato il percorso, passato e
ripassato le eventuali difficoltà e le alternative possibili. La decisione
finale era stata quella di confermare l’itinerario iniziale: Gressoney, Lago
Gabiet, Capanna Gnifetti e via.
La partenza da Bergamo, un lunedì mattino in motoscooter, la
mia vecchia Lambretta, carica all’inverosimile di zaini, corde, moschettoni, ramponi
e tanto entusiasmo.
Autostrada Bergamo, Milano, Santhia, Ivrea, Pont Sant Martin
e poi Gressoney.
A Pont Sant Martin, il cielo non prometteva bene, alcuni
nuvoloni si erano addensati sulle cime e lasciavano presagire qualche possibile
temporale. Per questo motivo decidemmo una piccola variante: anziché partire
dal fondo valle preferimmo salire con la seggiovia che collega il paese con il
Lago Gabiet e velocizzare i tempi del percorso.
Imboccammo il sentiero n°64 senza ulteriori indugi viste le
condizioni meteo che non erano rassicuranti ma sufficienti per farci sperare in
un successivo miglioramento.
La tormenta di neve ci raggiunse a metà percorso. Mentre salivamo,
incontrammo alcuni escursionisti che cercavano di dissuaderci dal proseguire,
affermando che salendo avremmo incontrato condizioni peggiori con scariche di
fulmini. Le guide che li accompagnavano
ci consigliarono di tenere le piccozze con le punte di ferro ben coperte
per evitare di essere oggetto di possibili scariche elettriche.
Avevamo una settimana a disposizione e nessuna intenzione di
rinunciare per una giornata di maltempo e, conseguentemente, dopo averli
ringraziati per i consigli, proseguimmo imperterriti.
Salendo superammo un escursionista solitario al quale proponemmo
di unirsi a noi, visto che sembrava incerto sulla direzione, ma non accettò la
proposta affermando di voler fotografare alcuni scorci (?) del percorso. Quali,
non lo capimmo considerando che la nevicata diventava sempre più fitta e il
vento sollevava un pulviscolo nebbioso. Ci avrebbe raggiunti, fortunatamente, molto
più tardi al Rifugio.
Arrivammo al Rifugio Capanna Gnifetti nel pomeriggio,
sfiniti da una salita difficoltosa a causa della neve che cadeva abbondante,
dal vento che ci perseguitava e dalla difficoltà di ritrovare i segnali del
percorso. L’unico modo era di riuscire a vedere le tracce delle peste lasciate dai
gruppi che erano scesi nella giornata, augurandoci che fossero sufficientemente
individuabili.
Nel Rifugio trovammo, ormai, pochi escursionisti che,
peraltro, si attrezzavano per scendere a loro volta. In attesa di avere a
disposizione una brandina, dopo una scodella di brodo bollente per riscaldarci,
ci sdraiammo sui pagliericci dell’invernale per riposare. Mi addormentai di
piombo.
Il mattino successivo, il Rifugio era semideserto; erano
presenti il rifugista, la sua compagna e un paio di escursionisti, compreso il
“solitario” del giorno precedente, e noi. Il tempo era peggiorato e nonostante
qualche brevissima e limitata schiarita, non permetteva di vedere la cima del
Rosa e il fondovalle. Alla radio trasmettevano le condizioni meteo non
certamente favorevoli alle alte quote.
Ma, nonostante tutto e poiché avevamo a
disposizione ancora diversi giorni, decidemmo di restare.
Anche nei due successivi giorni il tempo si mantenne sul
brutto costante e, a malincuore, prendemmo la decisione di scendere al Colle
d’Olen, al Rifugio Vigevano, e attendere che, nel frattempo, le condizioni migliorassero. La discesa, ancora una volta,
fu, sin dall’inizio, accompagnata da bufera e neve fitta e solo più in basso
trovammo pioggia. Bagnati, infreddoliti e un poco delusi, ma non domi,
aspettammo testardamente l’atteso miglioramento.
Nel pomeriggio ci raggiunse un amico del Cai di Bergamo che
ci propose, in caso di mutamento delle condizioni, di salire il giorno
successivo la Piramide Vincent. Era una delle alternative che avevamo previsto
nel nostro programma e, conseguentemente, accettammo.
Anche questa volta, purtroppo, il progetto non si concretizzò,
il maltempo continuò a insistere e, a malincuore e molto delusi, prendemmo la
decisione di scendere a valle e ripartire per Bergamo.
La cima del Rosa rimaneva il nostro sogno di quell’estate e
riproponendoci di ritentare l’anno successivo, riposte ”armi e bagagli” sulla
mitica Lambretta, riprendemmo la strada di casa.
In seguito non riuscii a mantenere il proposito, ma ebbi la
certezza che la scelta che avevamo fatto era giusta. Forse avremmo potuto
continuare, forse avremmo anche raggiunto il Rifugio Margherita, ma … forse
saremmo anche potuti incorrere, sul ghiacciaio, in pericoli che avrebbero messo
a repentaglio la nostra vita e di coloro che inevitabilmente sarebbero accorsi
in aiuto.
Adottai lo stesso principio, anni dopo, quando ad un
centinaio di metri dalla vetta del Monviso, per un problema fisico rinunciai
alla vetta. Tale decisione mi permette oggi di ricordare queste avventure di
montagna.
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