Ho descritto, nei capitoli
precedenti, la vita e i giochi di noi ragazzini di Città Alta. L’ambiente, la
ricerca dell’avventura, la libertà di poter “vivere” i prati, i boschi, le vie
senza pericoli erano l’essenza stessa della nostra vita quotidiana.
Tali libertà non generavano
preoccupazioni nei nostri genitori e lasciavano a noi la consapevolezza che
potevamo giocare e divertirci senza avere, come conseguenze, eccessivi
rimproveri o limitazioni punitive.
In buona sostanza la possibilità
di recarci anche in posti solitari e poco frequentati non ostacolava le nostre
quotidiane avventure. I boschi di Castagneta o di Valmarina erano meta delle
nostre scorribande, così, come d’inverno, le discese con sci e slitte sotto gli
spalti della Montagnetta.
Un giorno, con un amico che
abitava nella parte alta di via Porta Dipinta, osservai dei ragazzi che, con
zaino, divisa, fazzoletto colorato al collo e un grande cappello in testa,
transitavano in Piazza della funicolare: erano un gruppo di Boys Scout. Fummo subito
attratti da quell’episodio e decidemmo di chiedere informazioni in merito.
Ci dissero che in Città
esistevano due Associazioni scoutistiche: la Gei, Giovani Esploratori Italiani,
e l’Asci, Associazione Scoutistica Cattolica Italiana e che in Città Alta vi
erano le Sedi di entrambe.
Con l’amico decisi di visitarle
e, in primo luogo, la Sede della Gei situata nella palestra della Scuola
Elementare Beltrami in Colle Aperto. Fu una delusione; qualche zaino e un paio
di tende affardellate in un angolo, nessun ambiente che riproducesse ciò che ci
saremmo aspettati da una “Sede scoutistica”. L’organizzazione era inesistente e
le adesioni erano limitate a pochissimi ragazzi residenti in zona.
Scegliemmo la seconda
possibilità e andammo a visitare la Sede dell’Asci in via Bartolomeo Colleoni.
Questa Associazione, molto più
diffusa a Bergamo, la cui Sede centrale era nel Palazzo che ospitava il
quotidiano cittadino L’Eco Di Bergamo, ne aveva altre periferiche alcune
delle quali nella Città Bassa e una in Città Alta: il Reparto Bergamo IX.
L’edificio era quello dell’ex
Convento del Carmine, accanto all’omonima Chiesa, e l’ingresso era una piccola
porta nell’androne. All’interno l’arredamento e la coreografia erano come
avevamo sempre immaginato: mobili costruiti artigianalmente, vetrinette con
esposti trofei e bandiere, teli di tende militari mimetizzati; insomma tutto
quello che si prospettava come una “tana” di giovani marmotte. Aderimmo
immediatamente. Il Reparto Bergamo IX era composto di tre Squadriglie, ciascuna
con il proprio Caposquadriglia.
La divisa era costituita da
pantaloncini blu, camicia azzurra e calzettoni lunghi, anch’essi blu. Durante
il “noviziato” eravamo sprovvisti del fazzoletto identificativo del Reparto,
marrone con il profilo bianco, del tipico cappello da boy scout, a larghe tese,
e del coltello da caccia da portare in cintura. Li avremmo avuti dopo un
periodo di “addestramento” e il successivo giuramento. rituali stabiliti per
l’ingresso ufficiale nell’Associazione. Nel frattempo diverse furono le
“uscite” nei boschi per addestrarci all’orientamento e alla “sopravvivenza”
individuale: bussola e carte topografiche, fuocherelli per cucinare le nostre
provviste, montaggio e smontaggio delle tende entro cui ripararci in caso di
pioggia o di permanenza notturna.
Questa era proprio l’avventura
che avevamo sempre sognato.
La cerimonia del giuramento
avvenne durante un campo estivo, ad Alzano Lombardo, nel parco della villa di
un noto imprenditore bergamasco. Per tre giorni, tra i prati e sotto gli alberi
innalzammo le nostre tende e, tra giochi, canti e iniziative circa una venti
squadriglie si prepararono alla cerimonia finale: il giuramento dei novizi e il
“jamboree”, termine del raduno.
Finalmente potevo sfoggiare
l’equipaggiamento completo, compreso il tanto desiderato coltello da caccia
appeso con il suo fodero alla mia cintura.
Purtroppo il mio amico ed io
fummo divisi e destinati a due diverse squadriglie anche se spesso
partecipavamo entrambi alle escursioni e ai giochi organizzati dal Bergamo IX.
Dopo il campo estivo nella
pineta di Ponteselva, Clusone, durante la quale compii l’impresa, ardua per noi
ragazzini, di salire al Pizzo Formico, seguendo un impervio sentiero che
probabilmente nemmeno le capre avrebbero percorso, fu organizzato il campo
marino a Riccione.
Raggiunta la località adriatica
in treno con tutto l’equipaggiamento necessario, montammo le nostre tende in
uno spiazzo sabbioso accanto alla colonia della Dalmine e di fronte alla
Colonia dell’Opera Bergamasca.
Piantammo le tende in cerchio
attorno a quella adibita a refettorio e, più defilata la cucina vera e propria.
Il piano cottura, sostenuto da un elaborato intreccio di “alpenstock”, di cui
ciascuno di noi era provvisto, era coperto da zolle erbose e sassi. I fuochi
erano lateralmente circondati da pietre che riparavano la fiamma e, nello
stesso tempo, sostenevano pentole padelle per cuocere le vivande. A turno e a
coppie, ci recavamo nei negozi delle vicinanze per l’acquisto dei generi
alimentari necessari. Ogni coppia proponeva il menu giornaliero, provvedeva
all’acquisto del cibo necessario, cucinava e, infine, lavava pentole e
stoviglie presso una fontanella che la Colonia della Dalmine aveva messo a
nostra disposizione.
L’avventura non tardò ad
arrivare. Come spiegato poc’anzi, le nostre tende erano composte di vecchi teli
militari mimetizzati accoppiati con bottoni. I teli servivano inoltre per il
pavimento e per un’altra copertura di sicurezza, distanziata da quella
inferiore, per arieggiare l’intercapedine.
Durante la notte, sdraiati sul
pavimento, eravamo avvolti nelle coperte che ciascuno aveva portato da casa,
ovviamente senza lenzuola.
Ricordo la sorpresa che ci
riservò una perturbazione temporalesca notturna: fummo svegliati da fragorosi
tuoni e dal vento che fischiava tra l’abbottonatura dei teli. Non avemmo il
tempo di renderci conto della situazione quando improvvisamente vedemmo i
picchetti sfilarsi dal terreno sabbioso e ondeggiare pericolosamente la tenda.
Comprendemmo che era necessario
bloccare il perimetro che teneva i teli ancorati al terreno e, con le mazzette,
iniziammo a consolidarlo prima che la pioggia inondasse l’interno. Passammo
quindi a scavare ulteriormente il canaletto attorno alla tenda in modo che
l’acqua defluisse lontano.
Tra i lampi scorgemmo la
devastazione che il vento e la pioggia battente aveva creato tra le altre
strutture del campo: il refettorio e la cucina, ma in quel momento l’urgenza di
tenere ancorato al terreno il nostro “dormitorio”, ci consigliò di rinviare al
mattino seguente le necessarie riparazioni e il recupero del materiale da
cucina disperso. Trascorremmo, pertanto, il resto della nottata svegli e
attenti che la situazione, salvata in extremis, non peggiorasse. Il temporale
si risolse all’inizio dell’alba e finalmente, sfiniti ma rassicurati,
recuperammo un poco di sonno prima di avviare i lavori di “restauro” del campo.
Un altro raduno che ricordo
molto bene, avvenne a Manerba del Garda e aveva rilevanza nazionale. Centinaia
di tende erano sistemate in un uliveto prospiciente il lago e sotto l’omonima
Rocca.
A questo raduno partecipò anche
mio fratello Carlo tra i lupetti, acquartierati in una zona poco distante dal
nostro gruppo. Durante i giochi diurni scout e lupetti agivano in modo
indipendente e non avevano modo d’incontrarsi. Una notte sostituii un amico che
era di servizio nella ronda di controllo e mi spinsi nell’accampamento dei lupetti
per verificarne la sistemazione. Nonostante l’ora tarda i ragazzini non
dormivano e, sottovoce, parlottavano tra loro raccontandosi le avventure della
giornata. Salutai Carlo velocemente e tornai a fare il “guardiano notturno”.
A parte questi raduni
importanti, molto spesso nel fine settimana organizzavamo pernottamenti tra i
boschi delle colline bergamasche: Sombreno, Madonna del Bosco, Madonna della
Castagna, Maresana.
Si partiva dalla Sede di via
Colleoni con un piccolo carretto sul quale erano sistemati le tende, con il
relativo equipaggiamento, e gli zaini con gli effetti personali. Trainandolo e
spingendolo impiegavamo il pomeriggio del sabato per raggiungere la meta
prefissata.
Arrivati alla meta montavamo la
tenda, preparavamo il fuoco per la cena e, dopo aver desinato, osservavamo le
stelle e eseguivamo le esercitazioni di orientamento notturno.
Smisi di frequentare gli Scout
per un diverbio con il mio caposquadriglia. In una di queste uscite
avevamo portato degli scarponcini per essere a nostro agio nelle attività nel
bosco. Durante il viaggio di andata calzavo le normali scarpe che utilizzavo
giornalmente per frequentare la scuola. Non avevo altre paia di scarpe di
riserva.
Al ritorno avevo riposto le
scarpe normali nello zaino pensando di poterle recuperare prima di lasciare gli
zaini in Sede. Mentre mi avviavo verso casa, ricordai che non le avevo
recuperate e, pertanto, chiesi al Caposquadriglia di poter tornare e prenderle
dallo zaino: si rifiutò affermando che “le dimenticanze si pagano”. Il giorno
successivo sarei dovuto andare a scuola con gli scarponcini.
Ritenni il suo diniego ingiusto
e crudele, basato su un principio di pseudo educazione ma, fondamentalmente,
solo punitivo.
Il lunedì sera, mi presentai in
Sede, raccolsi i miei indumenti, contenuti nello zaino, salutai i compagni e
detti loro la notizia che non ci saremmo più rivisti. Forse ero stato troppo
impulsivo ma la punizione ricevuta, che consideravo ingiustificata, mi spinse
alla decisione che pose termine all’appartenenza col gruppo dei Boy Scout.
Fu allora che mi dedicai alla
“speleologia”!
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