Nel mese di
novembre del 1951 avvenne una delle maggiori esondazioni del Po nella Province
di Mantova, Rovigo e Ferrara. Le notizie iniziarono a farsi drammatiche verso
il 12 – 13 del mese ed erano diffuse dalla Rai
tramite i notiziari radiofonici (la televisione inizierà le trasmissioni
televisive nel 1954, ma la sua maggior diffusione sul territorio nazionale
avverrà solo nel 1956).
In ogni
edizione del Giornale radio, la prima notizia riguardava i disastri che
l’alluvione stava procurando nel suo terminale corso verso la foce in
Adriatico. Man mano gli argini si sgretolavano sotto l’enorme pressione
dell’acqua ascoltavamo notizie di casolari allagati e abbandonati,
specialmente
quelli costruiti nelle golene e nelle zone bonificate nel Polesine. A questo
fenomeno si accompagnava l’evacuazione dei loro abitanti e di quelli d’interi
paesi spesse volte eseguita salvando persone sistemate sui tetti e utilizzando
barche e mezzi dei vigili del fuoco.
Poi seguì il
caos delle famiglie salvate separatamente e in cerca dei loro cari che avevano
trovato rifugio in località diverse. Le difficoltà nell’eseguire un formale
elenco redatto luogo per luogo e, conseguentemente, il ricongiungimento avvenne
con lentezza aumentando l’ansia di chi aveva subito il trauma dell’abbandono e
la perdita di tutti i loro averi.
In ordine di
tempo, poi, fu richiesta la disponibilità a ospitare tutti questi profughi,
circa 180.000 persone senza tetto e senza lavoro, famiglie numerose, fuggite,
in moltissimi casi, solo con gli indumenti che indossavano all’atto
dell’inondazione.
La mia
bisnonna materna era nata e cresciuta a Polesella da cui dovette emigrare con
marito e figlie piccole durante l’alluvione del 1882 e mia nonna Adele
ricordava ancora quell’esodo. In famiglia, pertanto, le notizie trasmesse erano
ascoltate e commentate con particolare emozione.
Qualche
documentario proiettato dal cinegiornale “La settimana Incom” mostrò i volti di
contadini stralunati, senza più una lacrima da versare, donne che spingevano
carrette piene di qualche coperta e pochi indumenti, con accanto bimbi e bimbe
shoccati da ciò che avevano assistito e privi di qualsiasi sorriso.
La
commozione coinvolse tutti e non solo gli adulti. Se ne parlava in casa, nei
negozi e anche tra noi ragazzi quando, riuniti in capannelli, in altre
occasioni si sarebbero commentate le notizie sportive o le bellezze delle
“indigene” di città alta.
Ricordo una
domenica mattina, sulla scalinata, accanto alla fontana, del sagrato della
Chiesa di San Michele al Pozzo Bianco sentir raccontare dagli amici più grandi,
ciò che era stato loro riferito da conoscenti polesani.
Quando
tornai a casa chiesi a mia madre perché non potevamo ospitare un ragazzo o una
ragazza proveniente dalla zona toccata dalla tragedia. Mia madre mi fece
comprendere che sia la nostra abitazione non presentava caratteristiche per
avere ospiti, sia il bilancio familiare, lavorava solo mio padre ed eravamo in
quattro a dipendere da quello stipendio, non lo permetteva. Tuttavia mi disse
che aveva già pensato all’invio d’indumenti invernali ai volontari che si
occupavano dei profughi.
Non rimasi
soddisfatto della risposta, tuttavia mi consolai pensando che anche provvedere
alle loro necessità di vestiario, con l’incalzare dell’inverno, fosse un
piccolo contributo ad alleviare i loro disagi.
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