Negli anni
’50 la situazione economica delle famiglie iniziava a migliorare. Era l’epoca
delle Vespe e delle Lambrette, gli italiani riscoprivano le scampagnate e la
villeggiatura.
La mia
famiglia aveva scoperto un paesino in alta val Brembana: Cusio, arroccato sulle
pendici del Monte Avaro e, a quel tempo, non ancora servito dai mezzi pubblici.
La parte inferiore del paese era chiamata Cusio bassa, quella più a monte,
costruita attorno alla chiesa parrocchiale, Cusio alta, ed era proprio accanto
alla chiesa che avevano trovato alloggio i miei genitori. La “corriera” aveva
il capolinea a Santa Brigida e l’ultimo tratto da li a Cusio bisognava
percorrerlo a piedi. Due erano gli itinerari possibili, il primo lungo la
carrozzabile, il secondo tramite una mulattiera molto più breve anche se con
alcuni tratti molto ripidi.
I bagagli
erano assicurati tramite un autotrasportatore che faceva servizio tra Bergamo,
in via Quarenghi se la memoria non m’inganna, e per l’appunto Cusio bassa,
presso l’unica locanda del paese.
La nostra
abitazione estiva era proprio sotto il campanile e il suono delle campane era
il sistematico scandire del tempo dal mattino a sera al quale, tuttavia, dopo i
primi giorni ci si abituava facilmente. Due negozi erano l’unica fonte di
approvvigionamento alimentare e non solo: vendevano di tutto. L’unico ritrovo
era la “Locanda” dove, chiedendo e solo dopo brevi trattative, si potevano
ascoltare musica e canzoni grazie ad un vecchio giradischi.
Il
giornalaio era a Santa Brigida e abbastanza spesso accompagnavo mio padre ad
acquistare il quotidiano, L’Eco di Bergamo, letto in famiglia. Fu proprio
nell’agosto del 1954 che appresi la notizia della morte di Alcide De Gasperi.
La notizia era in prima pagina con una grande fotografia del politico e ricordo
i commenti costernati di mio padre alla lettura della notizia. Nello stesso
mese leggemmo anche la notizia della conquista del K 2 da parte di Compagnoni e
Lacedelli.
Fortunatamente
le famiglie che trascorrevano le vacanze estive in quel paesetto erano
accompagnate da numerosa prole e la compagnia non mancava. Il punto di ritrovo
giornaliero era il sagrato della chiesa, un balcone sulla vallata dal quale si
scorgeva in lontananza la vetta del Menna, alla sera rosata dal sole in tramonto.
A quel tempo non avrei mai immaginato che anni dopo sarebbe stata una delle
quattro cime che avrei ammirato dalla mia casa di Zambla Bassa dove da
quarant’anni trascorro le mie vacanze estive. Altra valle, altri ricordi.
Tornando a
Cusio, ricordo le passeggiate pomeridiane in compagnia alle chiesette di Sant
Alberto e San Giovanni, su facili e ombreggiate mulattiere e la “dissennata”
raccolta di ciclamini offerti come trofeo ai genitori. Non era raro anche
organizzare vere e proprie escursioni al Monte Avaro, al Passo di Cà San Marco,
ai laghetti di Ponteranica e, vera e propria avventura, la salita al Pizzo dei
Tre Signori con l’obbligatorio pernottamento in val d’Inferno sotto i pietroni,
rifugio di pastori e mandriani, accanto al falò e riparati da alcune coperte
portate da casa. La conversazione accanto al fuoco durava pochi minuti poi il
silenzio ci avvolgeva e con l’ultimo sguardo al cielo stellato ci si
addormentava, Prima dell’alba eravamo già in cammino per essere in vetta allo
spuntar del sole e goderci la meravigliosa vista che spaziava sino a Milano e,
in lontananza, alla cerchia innevata delle Alpi.
Proprio a Cusio, in compagnia di mio padre, ho iniziato ad amare la montagna; insieme andavamo a raccogliere funghi, mirtilli, con un attrezzo chiamato “petèn”, un aggeggio quadrato con una reticella posta sul lato inferiore, con sponde di legno e un manico. Le foglie passavano dalla reticella e si fermavano solo i mirtilli che raccoglievamo in un sacchetto. Raggiungevamo le casere dei mandriani sul Monte Avaro dove, dopo aver sorseggiato il latte appena munto, versato in un recipiente di legno a forma di scodella, “ol baslòt”, acquistavamo il burro fatto da loro nella giornata.
Mio
inseparabile “attrezzo” di avventura era un bastone di nocciolo che un amico,
abile intagliatore, aveva impreziosito incidendo una testa di cavallo
sull’impugnatura. Lasciavo quel bastone ogni anno a fine vacanza in custodia alla
padrona di casa e, invariabilmente, lo ritrovavo l’anno successivo. Molti anni
dopo, in una visita che feci a quella casa non lo ritrovai più; probabilmente
in un inverno particolarmente freddo finì mestamente la sua “carriera” nel
camino di casa. Fu come perdere un amico e provai una stretta al cuore.
Eravamo
giovani e incoscienti e non consideravamo i pericoli nei quali in alcune
occasioni potevamo incorrere. Un giorno decidemmo di andare a raccogliere le
stelle alpine nella zona del Passo di Salmurano, dove, sapevamo, se ne potevano
trovare a bizzeffe. La nostra sorpresa, quando arrivammo sul posto, fu la
mandria di mucche che brucava assieme all’erba le stelle alpine disseminate.
Non volendo tornare a casa senza la “preda” prevista, ne individuammo alcune su
una parete di roccia e ciuffi d’erba posta sulla sinistra del Passo. La zona non
era facile da raggiungere, ma con molta incoscienza decidemmo di salire. Mentre
come tanti caproni disordinati salivamo la parete, sentii un urlo sopra la mia
testa: “sassiiiiiii”. Mi appiattii contro la parete e fui sfiorato da qualche
decina di pietre che un amico aveva inavvertitamente smosso sopra di me.
Tremando per il rischio corso, scesi lentamente alla base della parete e per
quel giorno dimenticai l’orgoglio di poter mostrare ai miei genitori il bottino
preventivato. La lezione mi servì in futuro per affrontare ben altre ascensioni.
Il primo
anno di vacanze a Cusio, oltre alla mia famiglia soggiornò anche quella dei
miei cugini composta da mio zio Cesare, zia Pina e i cuginetti Gabriella,
Giorgio e Silvana. I più “vivacetti” erano senza dubbio mio fratello Carlo e
mio cugino Giorgio e i rispettivi genitori pensarono di iscriverli all’asilo
affinché, oltre a “toglierseli d’attorno”, potessero far amicizia anche con i
loro coetanei. All’asilo ci rimasero un giorno perché fecero tali e tante
rimostranze in casa che il progetto fu abbandonato immediatamente.
Frequentai
per diversi anni quel luogo di villeggiatura e la compagnia s’ingrandiva ogni anno.
La noia non la conoscevamo; mattino e pomeriggio ci si ritrovava e c’era sempre
qualcuno con delle nuove idee da realizzare. Alcune, in verità, erano anche
cattivelle anche se i danni che procuravamo rientravano più nella burla che nel
codice penale.
A volte la
nostra esuberanza era eccessiva e, in un caso, corremmo il rischio di essere
redarguiti e puniti dai tutori dell’Ordine.
Il fatto
ebbe inizio come “ritorsione” ad alcuni rimproveri ricevuti, da noi ritenuti
eccessivi e immeritati.In una valletta, posta alla fine del paesino, circondata da tre lati dal bosco e lambita dal torrente, era stata costruita una casetta a due piani abitata nel periodo estivo da due sorelle nubili e non più giovani.
Sul lato
sinistro della casetta, il bosco confinava, su un dosso, con un bellissimo
prato e nel centro si ergeva un grande ciliegio sotto le cui fronde ci si
radunava nel pomeriggio a giocare a “canasta”, gioco di carte in voga a
quell’epoca.
Le partite
erano seguite dalla tifoseria che commentava ad alta voce le varie giocate e,
gli schiamazzi, specialmente nel primo pomeriggio, disturbavano le due sorelle,
solite al consueto riposino del dopo pranzo. Naturalmente più volte eravamo
stati rimbrottati e minacciati di essere denunciati ai Carabinieri per disturbo
alla quiete pubblica. Dopo l’ultima minaccia, decidemmo di passare alla
controffensiva.Ci procurammo alcune zucche che svuotammo del contenuto: su un lato incidemmo occhi, naso triangolare e bocca a mezzaluna. Ci procurammo alcuni lumini da cimitero e aspettammo la sera.
Calato il buio, ponemmo le zucche sulla riva del torrente che scorreva lungo il lato sinistro della casetta e al limite del bosco, accendemmo i lumini e iniziammo a lanciare piccole palle di mota argillosa contro le persiane delle finestre per attirare l’attenzione delle due sorelle. Dopo alcuni tiri, le persiane si aprirono e lo spettacolo che si presentò loro era alquanto macabro. Chiusero velocemente le persiane e noi ragazzi che c’eravamo nascosti nel folto del bosco per assistere, soddisfatti della nostra bravata, ritornammo a casa facendo larghi giri per non essere individuati e riconosciuti da eventuali passanti.
La nostra
sorpresa fu il giorno successivo quando in paese trovammo tre Carabinieri
chiamati dalle due sorelle che, con i corpi del reato in mano (le zucche)
facevano domande a destra e a manca per raccogliere eventuali testimonianze.
Anche se era evidente la nostra responsabilità, non trovarono testimoni che
suffragassero i loro sospetti e si limitarono a fare una ramanzina generale
minacciando, in caso di ulteriori atti di …teppismo, di convocarci in caserma
per eventuali provvedimenti.
Ci rendemmo
conto di aver esagerato con la nostra bravata e, ovviamente, ci guardammo bene dall’escogitarne
altre, contenti di averla scampata senza pagarne le giuste conseguenze.
Molti anni
dopo, ripassando da Cusio, diretto al Rifugio Benigni, mi ricordai della
bravata e mi fermai a osservare la casetta oggetto della nostra “vendetta”. Il
paese ormai si era trasformato e proprio da quella valletta partiva una strada
che salendo al Colle della Maddalena, raggiunge i prati del Monte Avaro. Il
bosco era sparito e al suo posto sorgevano case di villeggiatura. Sulla parete
della casetta, sbiaditi nel tempo, erano rimasti piccolissimi segni marroncini,
probabilmente ultime tracce della nostra sciocca esibizione giovanile. Provai un senso di
vergogna!
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