6 luglio 1944, il bombardamento dello stabilimento di Dalmine
Un flash, un ricordo che da 67 anni mi porto nella memoria. Nel 1944 avevo 5 anni e abitavo a Bergamo, in Città Alta, a pochi passi dagli spalti delle mura venete. Con altri amichetti, a quel tempo, ci si rincorreva nelle strade prive di traffico e la nostra meta preferita era il Viale delle Mura. Quella mattina del 6 luglio osservavamo uno strano movimento nel cielo: spilli argentati, tanti, tantissimi, volavano alti e si dirigevano su Dalmine. Dopo qualche secondo iniziammo a vedere del fumo nero che si alzava alto , avevano bombardato lo stabilimento. All’unisono gridammo tutti: hanno bombardato Dalmine !
Mio padre lavorava come impiegato nello stabilimento .
Mentre raccoglievo le idee, vidi mia madre che lentamente risaliva il viale , proveniente dal Borgo ( come allora definivamo Città Bassa ) e io, ingenuamente, le corsi incontro dicendo “ mamma, hanno bombardato lo stabilimento di papà”. Vidi i suoi occhi atterriti e lo sguardo che si rivolgeva verso ovest dove ancora il fumo riempiva il cielo azzurro. Uno sguardo che non dimenticherò.
In quel momento compresi la “gravità” della notizia e feci mente locale sulla sorte di mio padre: ferito, morto, disperso !
Passarono alcune ore di silenzio e di angoscia, poi vedemmo arrivare un’impiegata, coperta di fuliggine nera che abitava poco distante da noi. Non aveva parole, era terrorizzata e schoccata, non sapeva niente, aveva lo sguardo assente. Chiedemmo notizie, ma non sapeva rispondere.
Dopo alcune ore apparve mio padre, anche lui coperto da quel nero untuoso , nel suo viso annerito brillavano due occhi luminosi che ci dicevano che si era salvato. Le parole non servivano.
Ci raccontò in seguito, come dovette la sua salvezza ad una sua collega che aveva portato a braccia nel rifugio perché era svenuta. Dopo alcuni attimi il suo ufficio fu distrutto da una bomba.
Il pianto consolatorio di mia madre e dei miei parenti fu l’epilogo di questa terribile giornata.
Senza
preavviso, alle ore 11:02 ed a 23.500 piedi d'altezza arrivò il 463° stormo,
seguito alle 11:04 dal 99°. Sulla Dalmine furono scaricate tonnellate di bombe
"con spoletta d’ogiva a 0,1 secondo e spoletta di fondello mista a 0,01 e
0,025 secondi". In tale occasione non suonò nessuna sirena. Alla fine si
contarono i morti: 231 operai, 17 impiegati,
21 civili e più di 800 feriti. (Nota storica)
Ricordi di
un bimbo di 5 anni, ricordi che non si cancellano dalla mente così come tanti
altri nei peggiori anni del "secolo breve".
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Dal bombardamento di Dalmine al 25 aprile del 1945
In seguito, dopo il bombardamento di Dalmine, a Bergamo accaddero altri fatti inquietanti. Una bomba lanciata da un aereo alleato colpì il casello della ferrovia delle valli, alle spalle del cimitero, uccidendo un’intera famiglia. Una sventagliata di mitragliatrice, sempre di un aereo, colpì un’abitazione di Città Alta, fortunatamente senza causare vittime. Ci si preparava a un attacco su Bergamo.
Una notte fummo svegliati dalla sirena dell’allarme: stavano bombardando Milano. I miei genitori mi avvolsero in una coperta e mi portarono sul prato della Fara. Di fronte si vedeva la collina della Maresana illuminata a tratti di color rosso, rosa, secondo le esplosioni delle bombe sganciate sulla capitale lombarda che vi si riflettevano. Tutti guardavano ammutoliti lo “spettacolo” pensando, probabilmente, a quando questa sorte sarebbe toccata alla nostra città.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mio padre, ancora scioccato, volle sfollare in un paese dell’hinterland e trovammo rifugio temporaneamente da parenti a Curno (allora Curdomo).
Le donne del posto avevano un segreto che non coinvolgeva i mariti: portavano cibo (quel poco ancora disponibile) ai prigionieri, fuggiti dal campo di detenzione della Grumellina, rifugiati sulle colline di Mozzo.
Naturalmente per non dare nell’occhio erano accompagnate dai figli, fingendo pertanto una scampagnata. Anch’io partecipai a tali “scampagnate”, con mia madre e le mie zie che portavano un pentolone di minestra, camminando per sentieri lungo il fianco dei colli e incontrando persone la cui lingua era, per me, incomprensibile.
Un rischio che le donne correvano senza titubanza, con estremo spirito di carità e solidarietà verso chi stava peggio di noi.
Poco tempo dopo, trovato un alloggio indipendente, ci trasferimmo ad Albegno, un comune sempre nella campagna ma più vicino allo stabilimento di Dalmine. Ricordo quando in bicicletta, seduto su un sellino, accompagnavo mia madre alla mensa dello Stabilimento per farci riempire la gavetta di minestra; per i dipendenti e per i loro congiunti era gratuita e abbondante.
In campagna era relativamente più facile procurasi il cibo che in città scarseggiava, anche se si doveva quasi implorarlo. Ad esempio il sale era pressoché inesistente. Per salare la polenta si scioglieva un piccolo dado “Liebig” nell’acqua,e lo si aggiungeva alla farina nel paiolo. Naturalmente la polenta assumeva un color marroncino ma, in compenso, risultava più gradevole al palato. In alcune sere d’inverno si andava da parenti contadini che, seduti davanti al camino acceso, con fuoco molto basso per non consumare molta legna, abbrustolivano le pannocchie di granoturco. Anche in questo caso con molta parsimonia, poiché il granoturco doveva servire essenzialmente per la macina.
Un giorno, un amichetto poco più grande di me, mi chiese di accompagnarlo a vedere i “resti” del bombardamento di Ponte San Pietro. Ovviamente la curiosità era più forte della paura e del rischio, così salii sulla sua bicicletta ed insieme ci avviammo verso Ponte. Attraversammo il centro del paese e risalimmo la strada che portava alla stazione ferroviaria. A destra e sinistra della via vi erano cumuli di macerie che rendevano la scena spettrale. Avevano appena colpito l’Ospizio per anziani, chiamato comunemente “Vecchioni”, situato nei pressi del ponte della ferrovia e le squadre di soccorso stavano ancora recuperando i morti, i feriti e le persone ancora isolate nelle camere rimaste senza scale. Urla, pianti, ordini concitati tra i soccorritori. Una scena infernale che ci “pietrificò” per alcune ore.
Al nostro ritorno dovetti sorbire, tra lacrime e sospiri di sollievo, le reprimende (e qualche giusto schiaffone liberatorio) di mia madre, ignara della mia scappatella e molto preoccupata della mia temporanea sparizione.
Passarono i mesi, l’autunno e l’inverno del ’44, e arrivò la primavera del ’45.
Una mattina di aprile sentii in strada urla e rumore di carretti e di autocarri. Dalla finestra vidi questi veicoli carichi di uomini, donne, ragazzi che sventolavano bandiere rosse tolte da qualche cassapanca: era il venticinque, la guerra era finita e le truppe tedesche si stavano ritirando velocemente dall’Italia settentrionale. La “Liberazione” significava il ritorno a casa.